Lettera 15
C’era un uomo che riposava in una casa che calava a picco sulla scogliera più alta del mondo, dove la risacca faceva tremare i vetri e la notte si sogna la libertà. Era una casa costruita dalla pioggia e dal tremolio di due gambe stanche di resistere: erano le mie gambe. E l’abitavano due occhi ciechi senza occhiali, ma che ci vedevano bene, e crescevano i fiori sul tetto ed entravano le nuvole dalla porta sul retro e non bussavano neanche. Quando succedeva preparavo il caffè. Ora infatti non lo bevo più. (E vengo da te, vengo da te, vengo da te…)
C’era un libro sgualcito con dentro qualche parola e una penna che scriveva di sale di mare, quello che ogni tanto pioveva a dirotto dagli stessi occhi ciechi senza occhiali, ma che ci sapevano vedere bene, e dei pomodori beccati da una pernice lì appena fuori dove il giardino si fondeva col paesaggio e le stelle erano un tutt’uno coi lampioni. Anzi, non c’era neanche un lampione, perché bastava la luna. E infatti mai che avessi acceso una luce. C’era una macchina fotografica e un rullo da trentasei con qualche fotografia scattata, la prima era un autoritratto ridicolo di quell’uomo altrettanto ridicolo che se ne stava nudo come un verme a prendere il sole. C’era una pila di legna da ardere e un’altra pila di lettere da ardere (come questa) e infine una sensazione, anch’essa da ardere - o da sconfiggere. Probabilmente era l’ansia o era la solitudine. Non mi ricordo.
C’era una piccola soffitta in cui una chitarra aveva visto giorni migliori e ora riposava distesa verso l’alto in seguito ad esequie eseguite una mattina d’inverno che l’ultima corda era saltata. Me lo ricordo bene quel giorno: era saltata via, e aveva detto:
- Io me ne vado in città.
E l’uomo aveva risposto, a quella corda stanca, di portarlo con lei, e lei allora aveva detto:
- Tu appartieni al blu. E poi, una volta andato, chi aprirà la porta sul retro alle nuvole?
Mi ero detto che effettivamente nessuno avrebbe aperto la porta sul retro alle nuvole. Allora avevo augurato buon viaggio alla corda, che s’era tuffata in mare e aveva nuotato annodandosi su se stessa, fino al bordo di una barca. Un pescatore l’aveva trovata, e, sciolti i suoi nodi, l’aveva accompagnata fino alla città. Poi avevano cenato e fatto l’amore. Anche io - l’uomo - avevo cenato, ma non avevo fatto l’amore.
La seconda foto del rullo era stata scattata ad una nuvola che aveva il tuo stesso esatto nome e cognome un giorno che stava arrivando l’estate, proprio come te che sei l’inverno e quando arrivi porti l’estate. Era una nuvola timida a cui non piaceva un uomo come me. Io se sono stanco dormo, e se sono sveglio scrivo, e se scrivo ti penso, e se ti penso cresco come i fiori, e se cresco poi appassisco, e va bene così. Tu invece eri soltanto una nuvola. Era uno scatto sgraffignato di soppiatto mentre eri intenta a gorgogliare un temporale dei tuoi (scusa!). Cantavi una canzone di uno dei quattro Beatles e la tua voce sembrava un violino che vibrando accendeva una vita altresì spenta e monotona: di nuovo, la mia.
Poi la notte calava e la cintura di Orione ti stava da Dio. Di notte stavi lì sul tetto del mondo e nessuno poteva dirti come dovevi essere o dove dovevi stare. Di notte eri tu, ti chiamavi Valentina, e facevi di cognome come hai sempre fatto da quando ti ho vista e ti ho riconosciuta. Di notti in cui ti stendevi a pancia in sù nel cielo e guardavi le stelle pure tu, coprendo la visuale al punto che l’uomo nella casa si ritrovava a guardare le stelle sulla tua schiena invece che quelle nel cielo, ce ne sono state parecchie. L’uomo dalle scarpe piccole e dal corpo sgraziato, l’uomo goffo e incapace di trattenere le emozioni, lui, ero io. Ma te l’ho già detto. Di notte ti si confondeva col cielo e la vita vorticava fra i grilli e le cicale, fra i tuoi capelli e il tuo seno, fra le tue labbra e il tuo profumo.
La terza foto del rullo ritraeva le costellazioni di nei della tua schiena.
Di quel rullo negli anni a venire l’uomo aveva conservato solo l’involucro. Aveva pensato che era quasi troppo bello per essere sviluppato. Come quando sei ad un concerto e rimani talmente estasiato da una canzone che finita la canzone non ti viene neanche da battere le mani. Te ne stai in silenzio con la bocca aperta a ripensare a quello che è appena successo.
Non c’era neanche un orologio, solo un bastone piantato per terra e la sua ombra che scandiva le ore. Quando non faceva ombra, si pranzava. A volte quando non c’era da bere bastava l’aria a riempire la pancia perché la pioggia voleva dire una sola cosa: che la nuvola piangeva. Aveva provato più e più volte a bere tutta quelle lacrime di pioggia così da poterle scrollare tutto il dolore di dosso - era disposto - l’uomo - a soffrire un po’ per lei, a patto che lei si accorgesse che quel peso non era più solo sulle spalle di lei. Insomma, era pur sempre un uomo. Si riempiva la bocca più che poteva quasi ad affogare, beveva tutte le lacrime che poteva, le riponeva una ad una nella pancia. A volte le sue lacrime si mischiavano a quelle di lei, milletrecento miliardi di gocce, le aveva contate, ed era sempre strano quando succedeva perché egli non sapeva mai se fossero state lacrime di gioia o lacrime di tristezza.
Un’ altra cosa che facevano le lacrime di Nuvola, erano rimpolpare il mare d’acqua che poi sbatteva sulle rocce di sotto e cullava il sonno di entrambi.
Dormiva già Nuvola e la sua pelle bianca quando il vento l’aveva spinta altrove. La luce era spenta e la porta sul retro socchiusa, pensava l’uomo - che se avesse saputo quello l’ultimo loro giorno il rullo da trentasei l’avrebbe scattato tutto. E invece di quel rullo negli anni a venire l’uomo aveva conservato solo l’involucro. Aveva pensato che era quasi troppo bello per essere sviluppato. Come quando chiudi gli occhi e fai finta di non vedere una persona che sa che l’hai vista, perché sai e non sai, perché non vuoi, oppure perché fai finta - o come sempre io e te.
Chissà che fine ha fatto. Chissà se qualcun altro conosce le sue costellazioni a menadito, o ha mai bevuto di lei. Chissà se le curve dei suoi fianchi strizzando gli occhi diventano altre cose: cavalli che galoppano, soli che tramontano, stelle marine, occhi truccati d’azzurro. Chissà che sia il punto di riferimento di una barca di un qualsiasi pescatore. O l’ombra nell’afa di agosto. Vai tu a capire. Chissà se le briciole delle sue lacrime stanno evaporando sopra alla mia testa, ora in centro città, in questa notte di agosto qualsiasi in cui non riesco a piangere per i miei guai - figuriamoci quegli degli altri. Chissà se è in un posto in cui non vorrebbe stare, con qualcuno con cui non vorrebbe parlare, Nuvola, a maledire il cielo per averla spinta via, o chissà se invece s’è acclimatata e dorme dorme che è stanca. Chissà se d’estate la notte dorme coperta. E chissà se dorme vestita. E quante volte si alza a bere. Chissà se i jeans le fanno il culo come le hanno sempre fatto —
L’uomo non lo saprà mai mentre aspetta che facciano effetto le gocce per dormire. Ha comprato un anello nel frattempo, e ora lo mette al dito perché non ha altri posti in cui dimenticarlo: meglio così. Nessuno lì lo saprà mai, né i pomodori, né i randagi che miagolano in amore alle tre del mattino, tantomeno il mare che arrabbiato sbatte la testa sugli scogli schizzando il suo sale sui vetri.
E io vorrei passare fra i suoi capelli di steli di fiori di campo. Dicono ogni tanto lavorasse nel negozio di dischi dove spendevo solo per vederti.
Solo quando l'uomo si era alzato dal letto, le gocce per dormire ancora intatte sul comodino, e si era avvicinato alla finestra, e si era avvicinato ai trent’anni, guardando il cielo notturno punteggiato di stelle, che un soffio di vento gli accarezzò il viso, portando con sé il profumo del mare e un vago sentore di pioggia.
Sorrise, un sorriso malinconico che gli increspò gli angoli degli occhi. Con un gesto lento, si sfilò l'anello dal dito che aveva comprato un anno prima e lo tenne nel palmo della mano, osservandolo brillare alla luce della luna. Poi, con un movimento fluido, lo lanciò fuori dalla finestra, verso l'infinito blu del mare e del cielo. L'anello descrisse un arco perfetto nell'aria, scintillando per un istante prima di scomparire nell'oscurità. L'uomo rimase immobile, gli occhi fissi sull'orizzonte, dove il mare si fondeva con il cielo in un abbraccio senza fine.
E fu allora che la vide.
Una nuvola solitaria, eterea e leggera, si stava avvicinando lentamente, spinta da una brezza gentile. Aveva una forma familiare, quasi umana, e sembrava danzare nel cielo notturno. Era la nuvola che lo faceva arrossire e vergognare, con cui non aveva il coraggio di parlare, che ignorava perché si sentiva di troppo. Era una nuvola piena di frasi di rito, per stemperare il silenzio insopportabile, un silenzio pieno di parole non dette da lui - non volute da lei. L’uomo trattenne il respiro, il cuore che gli batteva forte nel petto. La nuvola si avvicinò ancora, fino a sfiorare il davanzale della finestra. Per un attimo, gli sembrò di scorgere un volto conosciuto tra i suoi contorni vaporosi, un sorriso che conosceva bene. Che ascoltava buona musica.
Senza pensarci, tese una mano verso di lei. La nuvola si fermò, come in attesa. Poi, con un sussurro che poteva essere il vento o forse una voce delicata, la tua, si dissolse lentamente, lasciando cadere una singola goccia di pioggia sul palmo aperto dell’uomo. L'uomo chiuse la mano, stringendo quella goccia come il più prezioso dei tesori. E chiusi gli occhi, inspirando profondamente l'aria della notte, li riaprì con un sorriso nuovo che gli illuminava il volto. E sognò una città con un campanile storto dove tutti sanno di tutti, e l’unica occasione d’incontro erano le feste di paese.
Si voltò verso la stanza, lo sguardo che cadeva sulla macchina da scrivere rimasta in silenzio per troppo tempo. Con passo deciso, si avvicinò, si sedette e iniziò a battere sui tasti.
- Cara Valentina, - scrisse, perché quella nuvola solo così poteva chiamarsi - ti sembrerà strano leggermi nero su bianco…-
E mentre le parole come un torrente riempiono il foglio, e chiude il negozio di dischi in cui spendo per vederti, la porta sul retro rimane sempre aperta. Non serve bussare. Tanto non dormo comunque.
Buonanotte,
mai tuo
Commenti
Posta un commento