Di madre in figlia

Non essendo mai stata una lettrice assidua, credevo che mai avrei potuto iniziare e finire un libro nell’arco di ventiquattro ore. Invece è successo. E visto che lo ritengo un miracolo, sono qui proprio per consigliarvi il libro che giusto venti minuti fa ho chiuso e posato nella libreria. 
Di madre in figlia, di Concita De Gregorio.

Angela deve partire per un lungo viaggio di lavoro e Adè, la figlia, viene mandata a passare l’estate dalla nonna materna, Marilù, che non vede da dieci anni. La completa sconnessione tra la madre e la nonna scatena nell’adolescente un sentimento di inadeguatezza nei confronti del luogo in cui si trova; sentimento che però si trasformerà in curiosità: chi è questa signora, chi è mia nonna? Adè, viste le abissali differenze tra gli atteggiamenti di Angela e quelli di Marilù, sembra interrogarsi per capire in anticipo a chi delle due assomiglierà da grande, o perlomeno a chi vorrebbe assomigliare.


La lettura è ampiamente aiutata e strategicamente apprezzabile grazie all’utilizzo del flusso di coscienza (lo dice anche Adè Scusi dottoressa se metto male le virgole, la punteggiatura mi affatica); capitoli brevi in cui le voci di figlia, mamma e nonna si alternano in continuazione. Le tre donne raccontano i rapporti l’un l’altra, l’essere state rispettivamente, prima che madri, figlie e nipoti di una qualche altra mamma e nonna.

Espone il dilemma genitoriale di molte: lasciar crescere mia figlia liberamente, rischiando di apparire ai suoi occhi come la madre che non si cura della propria bambina, o essere presente, tanto presente, sempre presente, troppo presente? Certo, direte voi, basta avere equilibro, lo dice anche l’autrice: Un farmaco è veleno o salvezza. Ogni cura lo è. Anche l’amore: può soffocare, condannare o liberare. La giusta misura. Il calibro. Le dosi. Quanto di quanto somministrare. Quando. È tutto qui. 

Sembra essere necessario saltare una generazione per stimare il lavoro delle figure femminili che ci circondano: è più comune apprezzare l’impegno di una nonna piuttosto che quello di una mamma, forse perché la prima è una mamma per la seconda volta, una mamma al quadrato, e quindi ci appare un po’ più esperta, preparata, ci fidiamo di più. Le madri invece, nonostante sappiamo non vengono addestrate per esserlo, sono cariche di aspettative: hai scelto di avermi, ora devi dimostrarti in grado di crescermi. Forse è per questo che fatichiamo a perdonarle. Ma anche quando non l’hanno scelto sono responsabili: il dire Non avevo voglia di fare la madre, ero giovane, non avevo voglia e non sapevo, non ti giustifica, anzi ti colpevolizza, soprattutto un tempo, soprattutto quando diventare madre era un dovere, non un diritto. Soprattutto se non volevi quel figlio ma hai comunque deciso di tenerlo. Perché? A questo non c’è alcuna risposta.


In un mondo in cui le figlie spesso si dimenticano di essere diventate loro stesse madri, l’autrice sembra suggerire di posare il rancore e apprezzare tutto il resto. A memoria, come un mantra, cito: one day I’ll look back and wonder why I wasn’t a better daughter

Perché dare la morte è più difficile che dare la vita, immensamente di più, ma allo stesso modo dare la vita è una responsabilità che ti chiama all’appello per sempre.

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